Archivio per Platone

LUPUS METALLORUM INTELLETTO DA JACOPO RICCARDI

Posted in Uncategorized with tags , , , , , , , , , , , , , , on luglio 10, 2012 by CHIARA DAINO

Immagine
Opus est
introdurre, perché si rende necessario (inevitabilmente necessitato) chiarire (idem) l’impiego di alcuni vocaboli. A partire dall’esclusione proprio del sintagma “vocabolo” in quanto riduttivo. Impiegherò “parola” e dichiaro (bis in idem, ma questa chiosa è autoschediastica a chi la scrive) che Daino è nelle parole. Parola, *paraola, parabola, paraballw, “affianco”, abbinamento di fonema e semantema, di suono e messaggio, di significante e significato. Parola come simbolo. E parole e simbolo non sono univoci. Non sono termini, pietre di confine. Ma possono essere pietre di paragone, pietre di scandalo, pietre fondative, pietre scagliate dai lapidatori. «Le parole sono pietre» negli effetti (e hanno la dignità di poter essere metallo), ma sono plastiche e duttili nelle mani dell’Autore (che attribuisce autorevolezza alle parole, che hanno il privilegio – nell’arco della storia dell’amore per il sapere – di essere caratterizzanti dell’essere umano senza, tuttavia, che buona parte dell’umanità meriti maglie rosa o iridate nel podio dell’evoluzione).

Daino è [anche, in fondo] traduttrice. Perché il “classico è realmente un ideale di valore” e lo puoi affogare sotto ettolitri di bevanda ad alta gradazione, ma sopravvive. Traduce, ovvero interpreta. Interpretare un’interprete è un lavoro avvilente, ché si ratificherebbero i gradi di distanza tra il vero ed il rappresentato che Platone contava per esiliare l’Arte dalla sua Repubblica. Daino, non solo traduttrice professionale (eleggendo Rimbaud, incontro fatale sul battello tanto ubriaco da essere “fatto”), è essenzialmente interpres, parola che (con buona pace dei benpensanti) Plauto (Curc. v. 434) impiega nell’accezione primitiva [autentica] di “negoziatore” [di schiavi]. Ben più libere, le parole abbisognano di negoziatori, di mediatori [culturali], di pontefici come Daino. Donde non interpreterò, ma recensirò [recensio codicum], passerò in rassegna, quasi mimando il saluto militare. Ovvero sp<h>oglierò. Un cammino à rebours di lettura in lettura, di birra in rhum, di pompa in Metal.

Per approcciare (provarci con, detto altrimenti) Daino occorre un corredo ampio: figure retoriche, testi classici, ragnatela letteraria eterogenea (testi che scuce traendone parole, pura logotomia), golate di Carmelo Bene e, naturalmente – fisicamente, cultura metallara. Ed Ella, essendo un daimwn, attende da me una recensione di «Lupus metallorum», obbligando proprio me, del tutto profano, ad un’immersione ri-battesimale nella forgia dello steel. Perchè, ad essere espliciti, Daino è stil / stile / still / stiletto (ma non espliciteremo troppo, perché Daino ama le implicazioni – come le inferenze).

Nel periglio, mi introduco.

E muovo dalla copertina. La tavola periodica di Mendeleev non è solo e non è tanto un sistema classificatorio, che come tale si espone ai rischi (che Daino calcola e sputa, ma ugualmente) di giudizio soggettivo; è una tavola universale, è una struttura cosmica. Il mundus immondo, che è un anticosmico tutto, è intimamente metallico. Il metallo è il négligé del mondo.

Metallo (pesante, sia nel senso della sonorità Heavy che nella tossicità chimica organolettica) è materiale da corazza, però, e sotto la corazza sta in Daino un perizoma semi-invisibile. Come la sua pelle è aromatizzata in tonalità dolciastre, così il suo io – che l’Autore riveste, abolendo la dicotomia persona/personaggio secondo la scuola beniana – riemerge contro volontà, e fa scintillare gli occhi cerulei come se un lampo scaturisse da una caldera sotto la banchisa. Perché intrinsecamente, a causa di vissuti e di destino, la cifra prima di Daino è sofferenza [mathos-pathos]. La sua reazione, il suo antibiotico (pur rappresentandosi ella stessa come virus) è il radicarsi nelle parole. È anzi, il rinascimento delle radici verbali. Dove Daino non accetta la realtà – per non subirla, per non farsi violentare anche da essa – è nella speranza utopistica che il suo     gridare,

il suo labirinteggiare, il suo dire sia capace di sventrare il pensiero comune, che si limita a paupulare (verbo ricorrente nella produzione dainiana). Qui la sinapsi non trasmette, e Giovanna d’Arco riappare, seppur decisamente meno virginale.

Inciso. Come me dopo gli incontri (eventi) con la Dama. Inciso, dunque. Nella predestinazione bizzarra, ho letto a tempo col mio esordio dainiano, l’intervista che Fernanda Pivano ebbe con Charles Bukowski nel 1982, pubblicata col titolo irriverente e pertanto azzeccatissimo «Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle». Daino è un cocktail (beve liscio ma è mix) della traduttrice che aprì le porte dell’Italia tra gli altri al Lee Masters di Faber, alla beat generation (tra cui, scatola cinese, quel Burroughs che letterarizzò per la prima volta la dittologia Heavy metal), a Bob Dylan, e dello scrittore affogato nell’alcool. Posizione indiscutibile, ma dalla quale è più facile rovesciare lo stomaco che il mondo. L’obiezione più subdola che mi si potrebbe fare è relativa, dunque, al perché dedicare un’attenzione critica all’ennesimo utopista che ambisce sbaragliare il fortino dell’editoria, senza poterne avere alcuna ponderata speranza. La prima risposta che darei è che una domanda così impostata non ha nulla della struttura delle domande che pone Daino, che adora Edipo (e l’edipeo enciclopedico) ma è la Sfinge. La seconda è che la Dama merita perché è uno snodo. A prescindere dal suo successo – concetto sdrucito dal comune e banale pensiero, ma con lei odi vulgus profanum et arceo – Daino con folle lucidità sa “linkare” nell’universo logico. Nel suo essere riplasmatrice di Parole ella assume una dimensione sacerdotale, rendendo sacro il Logos secondo una gnosi personale che non disdegna, e per questo lo bestemmia, il Verbo giovanneo.

Lo svelamento integrale dovrebbe toccare, in un navigare in mare aperto, ingredienti salienti dell’opus (opera alchemica) dainiano, a muovere dal sesso che schizza in «Virus71» ed in «[Archi di] Pietra», o l’enigmistica come ludus che attinge tuttavia alla nux della nascita della Scienza.

«Lupus Metallorum» coniuga una – ferrea – volontà apocalittica [rivelante] con scelte lessicali in controtendenza, senza che questo comporti a priori il fallimento dell’iniziativa che sostanzialmente è eroica e meritevole. In Daino erutta l’istanza rieducativa, che assurge in una riflessione più strutturata ad una dimensione sociopolitica attualissima[1].

Stringendo l’obiettivo, ed allargando il forcipe, «Lupus» – per la parte firmata da Daino, corredata dalla matita graffiante di Daniele Assereto – è dunque un testo di “traduzioni” a finalità – anche – didattica: insegnare il Metal, sfatando pseudoimmagini, muovendo dai testi. Plauto disse di sé (Asin. v. 10) vortit barbare, che applicando le analisi storiche di Scevola Mariotti (concetto di “traduzione artistica”) e di Alfonso Traina (concetto di “traduzione poetica”) si traduce propriamente in: “ha riadattato da una lingua straniera”. Ecco, la traduzione di Daino è una vorsio. Non si banalizzi tale opera con quella che tra i banchi liceali si definisce “traduzione libera”. Dallo scrittoio, Daino vuole [deve, è missione] miscelare nel Boston la tra-duzione che sia anche tra-dizione dei contenuti di una Sideris Anthologia (una miscellanea stellare, anche) (e quindi, la conservazione del senso primigenio) e la sua personale rilettura. Poesia al quadrato, poesia di poesia.

Individuato il primo cuore, cioè il teloV, tentiamo il secondo: il valore aggiunto, il carakthr dainiano. Il metallo incornicia dimensionalmente l’arco vitale (diventato arco-come-arma) dell’Autore[2], e la postilla (clausola, conclusione) in prosimetro «Il massacro che sono» segna la traccia. L’ira epica (come allusione ed in senso etimologico) colpisce chi ha fessurato l’io della Donna[3] con toni che ritornano in «Virus71», la resurrectio mortuorum rivisitata in chiave Iron Maiden trasforma la Donna in Dama, la creatura in vampira e qui gladio ferit gladio perit (e ripetiamo: gladio/gladiolo/spada/taglio/ascia/scure/chiara…), la Dama corazzata è nuova Boudicca, mangiauomini che svuota (poco importa sapere se sia fictio letteraria o autobiografia) gli uomini (del caso, anche le loro sacche testicolari). Ma che soffre (fert). Il dolore profondo che il Metal grida e che l’Autore grida come metallara si coniuga col dolore individuale, al quale non già rimedio ma medicamento potente assurge chiaro, dal fondo dell’abisso, la Parola[4]. Dissotterrando A Skull full of Maggots Daino dissotterra un esercito di immortali: da Petrarca a Virgilio, da Shakespeare a Carmelo Bene, da Flaubert (il suo stilista) al vocabolarista Rocci, marciano mimetizzati nelle corde di un’arpa celtica, asserviti ad uno sguardo nivale. Petrarca, su “archi-di-pietra” paronomastici che fungono, in una architettura escheriana, da puntelli, si ritrova ad impugnare una pinta ed i suoi colleghi fluttuano in giochi verbali degni del più raffinato tardo ellenismo o del gongorismo più osé, ma che – ed è qui la vera rivoluzione dainiana – non sono cinguettante concettismo ma veicolo culturale autentico. Daino è un’aristocratica col chiodo, e questo apparente ossimoro è proposta qualificante, e pertanto ignorata, perché decisamente destabilizzante e rifondativa.

Un terzo passaggio attiene al quomodo, per il quale ci soccorre la lettura, anche antologica, di «Lupus» corredandolo dai “testi a fronte”. Preliminarmente: se i testi non sono stati pubblicati non è solo per questione di diritto d’autore, ma perché potesse evidenziarsi che questa è opera propria, vitale in sé, creata e non generata della stessa sostanza (dello stesso elemento). Tuttavia, il raffronto chiarisce anche al neofita con quali strumenti [attrezzi, bisturi], prima di ogni altra riflessione, Daino è intervenuta: 1) ristrutturazione non-meno-ritmica (e dove possibile non-meno-musicale) del tessuto verbale, con l’ausilio di interpunzione espressiva; 2) impiego di figure retoriche tradizionali; 3) vorsiones; 4) interpolazioni (queste ultime sono la forma di intrusione nel testo-base meno rispettose, ma coerenti nello spirito di versione, ed inoltre queste sono generate e create dallo spirito metallico).

Trasversalmente, opera sullo strumentario (sulle corde) la tentazione ineluttabile dell’enimma (secondo la grafia del premetallico Tarchetti, caro all’Autore). Il calembour, il bisticcio, la zeppa, lo scambio, la sciarada, sono l’eserciziario dell’Autore, e fonte non di secondo rango nella ri-scoperta del significato delle Parole (lemma, da lambanw, significa letteralmente “guadagno” e “dizionario” in latino è tuttora thesaurus).

L’impiego dell’em dash (nasalità ricorrente, vedremo) gioca sull’equivoco grafico, spezzando ciò che in realtà deve essere collegato e consente una mimesi della vocalità (un’anastrofe nel parlato), ed indica sia una maggiore rielaborazione che un Metal con maggiori spezzature, toni arditi (hard). All’opposto, il rispetto del fraseggio originario, e quanto più della suddivisione strofica, è indizio di un messaggio più intimo, più rispettato, più sound.

[un solo esempio]

La sovrapposizione con la melodia non è un dogma per Daino: così, in A Skull of Maggots dei Cannibal Corpse, il ritmo sincopato e la vocalità infernale del solista diventano improducibili nella prima strofa, mentre nella seconda – “dialogata” col pubblico che intercala con il ripetuto grido “vermi” (maggots) – la mimesi è maggiore, accentuata dalla scelta grafica di rubricare la voce del coro. La prima strofa, dunque, si presta maggiormente a piccole, significative, dainizzazioni. Così si inseriscono espressioni che non si riscontrano nell’originale come l’additamentum

“pezzi di polvere [cipria di calcio]”

o l’elaborazione di enjembement ambivalenti (“l’ultimo respiro / riposto in una bara” dove in realtà “varca la soglia, l’ultimo respiro” è più fedele all’originale, da cui la virgola inserita distanzia l’opera attuale, accentuando l’icasticità della versione “varcare la soglia” di mitologica derivazione rispetto al più comune ed anglosassone take the breath) e lineette che ridisegnano le dimensioni fondamentali (after a torturous death / Your life ended si trasforma, o meglio si presta ad ambivalente lettura, come “la morte – violenta / la tua vita – è stata”). La strofa di clausola, poi, dopo la “traduzione-omaggio” al gruppo musicale, indulge in un’aggiunta tematica, che si apre con un’equivoca allitterazione in sibilante, di natura viperina (“salme sanguisuga” dove “salme” è forzatura rispetto al singolare che sarebbe grammaticalmente più contestualizzato, ma consente la lettura sostitutiva salme/salve) per svilupparsi attorno al teologico (e sacrilego, quasi, qui) verbo “battezzano” e si conclude con richiami a Boito e Manzoni (“carro di morti”). Il legame tra la sezione più propriamente tradotta e quella originale sta nella ri-titolazione, “Un cranio culla per-le larve” che non richiama le larve di perla dei pescatori, quanto il cuore della perla del bivalve, una larva attorno alla quale i sedimenti creano la perla stessa. Il macabro è solo una veste dell’inequivocabile destino di Daino di trattare l’equilibrio scomposto tra vita e morte, nel quale il battesimo può essere compiutamente compiuto dagli animali saprofagi.

Jacopo Riccardi


[1] Cfr. “La poesia è politica e una poesia che non è rivolta al sociale è terribile” (LM p. 188).

[2] Cfr. “Metal è l’universo che mi abita” (Poetallica, in LM p. 183).

[3] Cfr. “…la poesia è amore del donare…” (LM p. 188).

[4] Cfr. “E sull’unghia di quell’alba ho capito: ero sola con la Parola” (LM p. 193).